Digital transformation, la scoperta del nuovo continente digitale

Solo l’unione delle forze può contribuire a disegnare la rotta verso il nuovo continente digitale dove gli strumenti di navigazione della trasformazione e della sostenibilità sono gli elementi abilitanti. Con la partecipazione di Agenzia del Demanio, Axians, Bludigit (Gruppo Italgas), Bolton Group, DATA4, Eni, Open HUB MED e WEGG

Introduzione di Giuseppe Mariggiò

La trasformazione digitale non è solo disruption ma è soprattutto capacità di costruire il futuro. Dobbiamo fare i conti con la complessità che aumenta come la polvere sotto il tappeto, garantendo sicurezza e corretta gestione del rischio. Accettare che non ci sono soluzioni semplici. Imparare a imparare. Ascoltare per decidere. Prendere la responsabilità delle scelte su noi stessi, non per conto terzi. Distinguere tra mezzo e fine. La politica è uno strumento e come la tecnologia serve a creare un vantaggio, ridurre differenze e rischi sistemici che creano squilibrio. Nelle Rane di Aristofane, ci sono due consigli per salvare Atene dal declino: quello di Euripide di “fare tutto il contrario” e quello di Eschilo di considerare la “terra del nemico come la nostra” e le “navi come le vere risorse” per creare un futuro per chi vuole restare o per chi vuole andare via. La trasformazione digitale disegna nuove rotte per accedere alle risorse sia quelle mai utilizzate prima sia quelle già esistenti, utilizzandole meglio. La trasformazione cambia il modo di fare le cose, pone nuove domande, trova nuove risposte. La trasformazione cambia le cose intorno a noi e agisce sul modo di percepire il mondo. La trasformazione cambia la velocità dei processi e delle catene di fornitura, sposta gli obiettivi, mette la periferia al centro, mostra le relazioni nascoste, crea nuovi equilibri. La trasformazione aumenta le funzionalità e amplia la capacità di visione, riducendo l’incertezza del futuro. Trasformazione non significa spostare i problemi da un’altra parte ma scardinare abitudini e resistenze al cambiamento. Il 12 ottobre del 1492 è la data della cosiddetta “scoperta dell’America”. La scoperta del Nuovo Mondo cambiò la visione del mondo allora conosciuto. Superata la fase di esplorazione, imprese e organizzazioni stanno sfruttando le nuove tecnologie per guidare l’innovazione, reinventare i modelli di business, democratizzare l’accesso alle risorse e collaborare nelle economie digitali di nuova formazione. Perché se nessuna trasformazione è a costo zero, nessuno squilibrio può durare per sempre. E prima o poi, è destinato a esplodere.

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TRASFORMAZIONE E TRANSIZIONE

La trasformazione digitale è un dato ormai di fatto. Tuttavia capirne a fondo le problematiche e le ricadute sul piano operativo non è banale. Quando si pensa alla trasformazione digitale il pensiero corre subito alla disponibilità di servizi tramite la rete e il proprio computer o smartphone. Affinché un servizio sia fruibile però è necessario che alcuni passi fondamentali siano realizzati. In primo luogo, serve una infrastruttura di connettività affidabile e sicura. Poi è necessario che il tutto si basi su informazioni in forma digitale reperibili su basi dati di fornitori diversi. Infine, serve una interfaccia semplice e utilizzabile senza la necessità di essere esperti informatici o di doversi dotare di strumenti eccessivamente costosi e complicati. Infrastruttura, digitalizzazione degli archivi cartacei, interconnessione tra database differenti, sicurezza, semplicità d’uso, disponibilità per le “tasche” dell’utente medio. Tanti aspetti di una trasformazione digitale che per definizione sarà “working progress”, in quanto nuovi servizi potranno e dovranno essere aggiunti e integrati. Ma a che punto è la trasformazione digitale delle imprese? Quali sono gli aspetti formativi, culturali e di disponibilità di servizi che la potranno rendere oltre che attuale anche operativa? Che ruolo hanno le amministrazioni centrali e locali per accelerare questo processo, rendendo i servizi alla portata di tutti i cittadini? Qual è l’impatto della trasformazione digitale sulla ideazione, produzione e commercializzazione di nuovi prodotti da parte delle aziende? Grazie al contributo di Agenzia del Demanio, Axians, Bludigit (Gruppo Italgas), Bolton Group, Data4, Eni, Open HUB MED e WEGG, la tavola rotonda di Data Manager si è posta l’obiettivo di analizzare lo stato dell’arte della trasformazione digitale come un processo continuo e irreversibile da attuare con consapevolezza e attenzione per non correre il rischio di lasciare indietro qualcuno.

UNA RETE PER I DATI

Partiamo dalle infrastrutture di rete. Senza una adeguata infrastruttura di comunicazione nessuna trasformazione digitale può portare l’effetto desiderato. Ma qual è lo stato dell’arte dell’infrastruttura di rete che abilita la trasformazione digitale sia in ambito pubblico che privato? La trasformazione digitale passa dalle applicazioni ma anche dalla loro disponibilità. E quindi diventa necessario avere una solida e robusta infrastruttura di rete. Quando si parla di infrastrutture di rete ci si ferma a pensare a quelle di connettività ma anche i data center ne fanno parte perché il disegno delle reti è sempre più influenzato dalle esigenze dei dati che devono trasportare e delle applicazioni che devono rendere disponibili. Se in precedenza, i piani di rete venivano progettati e definiti dalle grandi aziende di telecomunicazione, oggi tale lavoro viene fortemente “indirizzato” dai fornitori dei contenuti. «La parola chiave sono i dati. Le reti crescono proporzionatamente ai dati e al valore economico che i dati si portano dietro» – afferma Valeria Rossi, executive president & chairwoman di Open HUB MED.

Valeria Rossi, executive president & chairwoman di Open HUB MED

«Le reti si modellano sull’importanza di tali dati che possono essere considerati i veri creatori di business». In letteratura, l’effetto rete è una situazione in cui il valore di un prodotto, di una piattaforma, di un servizio dipende dalla numerosità degli utenti che ne fruiscono o degli operatori che lo propongono; lo stesso oggi vale per i nostri dati e per la monetizzazione conseguente. Questo valore è impattato moltissimo dall’avvento dei Big Data e non si può parlare di infrastruttura di rete prescindendo dall’aspetto legato ai dati e al setup dei data center che li erogano. Se pensiamo, per esempio, alla mole di dati prodotti e immessi sulla rete da strumentazioni legate all’IoT e alla necessità di analisi near-real-time, vediamo come il tempo di latenza del dato sulla rete diventa fattore di successo di una iniziativa o di una applicazione. In altre parole, più il dato è accessibile più rende. «Si è passati da una rete di dati a una rete per i dati» – sostiene con una frase molto chiara Valeria Rossi. Partendo da questo concetto, le logiche di sviluppo delle infrastrutture di rete si spostano. Al crescere del volume di dati, della eterogeneità delle fonti di provenienza e delle applicazioni che li utilizzano, nasce l’esigenza di gestire le informazioni direttamente dove vengono generate (Edge computing) o dove vengono fruite (Content Delivery Network), passando da un approccio “centralizzato” a uno più “decentralizzato”. «La rete sta evolvendo verso un modello di prossimità che la fa da padrone. Non solo deve essere in grado di “trasportare” i dati dal centro alla periferia e viceversa, ma deve farlo in modo intelligente per non “trasportare” tutti i dati in modo indifferenziato ma solo quelli utili» – continua Valeria Rossi. Oggi, il mercato della rete e dei data center è concentrato sull’area milanese. «Abbiamo l’esigenza che la Pubblica Amministrazione raggiunga con reti ad alta velocità tutta la Penisola. E quindi, esiste la necessità di avere punti di interconnessione decentralizzati in grado di integrare le risorse delle grandi realtà anche con quelle di operatori locali che spesso hanno una sensibilità delle esigenze del territorio più approfondita di quella degli operatori molto più grandi».

Come abbiamo visto la disponibilità di data center interconnessi è essenziale per una trasformazione digitale che sia efficace ed efficiente. Altrettando importante è l’offerta di servizi di data center in grado di abilitarne e velocizzarne l’implementazione sgravando le aziende dall’onere di attivarsi in proprio. «La costruzione di un data center non è alla portata di tutti» – ci ricorda Marco Casaletta, sales engineer & telco operators manager di Data4. «E si basa su quattro pilastri fondamentali: primo, avere una location con alta disponibilità di energia elettrica, in quanto è risaputo che i data center sono entità energivore per definizione. Secondo, disporre di spazi che ospitano le infrastrutture che siano sane e controllate sotto vari aspetti: umidità, refrigerazione e così via. Terzo, garantire la sicurezza fisica degli ambienti. Ultimo, ma non ultimo, poter disporre di una ottima connettività con diversi operatori, quindi essere – come si dice – carrier neutral». Data4 pone al centro del proprio obiettivo di business questi pilastri nella costruzione dei propri data center tanto che è stato definito “supernode” proprio per l’ampia gamma di offerta di connettività, aiutato in ciò anche dalla vicinanza all’enclave di via Caldera a Milano, dove tutti i carrier nazionali e internazionali convergono. «Essere posizionati in località strategiche che possano diminuire i tempi di percorrenza dei dati a livello nazionale e internazionale, è un vantaggio strategico» –continua Casaletta. «Dal punto di vista dell’impatto ambientale, il data center è sicuramente un forte energivoro e stiamo attivando azioni concrete per raggiungere l’obiettivo di “zero carbon footprint” entro il 2030, anche in una logica sana di aumento della competitività».

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Marco Casaletta sales engineer & telco operators manager di Data4

Il livello di interconnessione tra provider differenti, e quindi anche tra data center diversi, è sicuramente uno dei driver principali per l’attuazione della trasformazione digitale. Più ti allontani dal centro, meno interconnessioni hai a disposizione. Tuttavia, occorre tenere presente che la connettività è essenziale sempre di più alla periferia. Avere una “propria” rete di connessione è una modalità anche per controllare dove vanno e da dove vengono i dati. I centri di interconnessione diffusi sono quindi una necessità per attuare veramente una trasformazione digitale che controlli, in senso “buono”, la capacità dei propri dati di essere sfruttati in periferia, là dove vengono creati e utilizzati.

«Gli hub di interconnessione si sono sviluppati principalmente nel Nord Europa, ma i cosiddetti “dati bagnati”, cioè quelli che sfruttano i cavi sottomarini rappresenta circa il 97% dei dati che passano sulle reti, per un totale di transazioni che valgono circa 10 trilioni di dollari al giorno. «Attualmente, Marsiglia è il più importante snodo di traffico dati tra Asia, Africa, Europa e USA» – spiega Valeria Rossi di Open HUB MED. «Ma i cavi, prima di approdare a Marsiglia, passano dalla Sicilia». Così a Carini, a 26 chilometri da Palermo, il consorzio Open HUB MED lavora per aprire la nuova porta dei dati del Mediterraneo. «Vicino a tali approdi verranno anche sviluppati data center in quanto favoriti dalle capacità di interconnessione». L’obiettivo è di intercettare questo traffico dati e gestirlo in data center nazionali offrendo servizi di alto livello. Un hub di aggregazione porta valore alla realtà locale, contribuendo alla riduzione dei costi di trasporto dati nazionali e creando un mercato più competitivo. «Con Open HUB MED accorciamo l’Italia» – afferma Valeria Rossi. «Altri cavi stanno arrivando su Genova e Savona, ma questi dati verranno riportati su Milano e quindi rimbalzati in Europa: l’obiettivo è invece svincolarci dalla sudditanza tecnologica del Nord Europa, andando a creare poli differenziati e livelli di interconnessione maggiori, con minori tempi di latenza e con maggiore possibilità di interscambio ottimale di dati».

FATTORE INTERCONNESSIONE

«Il tema dell’interconnessione dei dati è un tema essenziale per ampliare i servizi resi a cittadini e imprese» – spiega Marco Barra Caracciolo, chairman e CEO di Bludigit, società di servizi informatici del gruppo Italgas. «In Italgas la trasformazione digitale dei processi ha interessato anche il servizio di Pronto Intervento – attivo 24/7 per segnalare presunte dispersioni di gas – determinando l’introduzione di nuove tecnologie e di una nuova experience arricchita dai dati disponibili provenienti da cartografia integrata, GPS per ottimizzare i percorsi, risultati del monitoring dell’intervento del tecnico reperibile e tanto altro ancora. Un’experience che ha permesso non solo di rendere ancora più efficace la gestione della chiamata e dell’intervento per Italgas, ma anche di fornire un servizio di rendicontazione al cittadino che riceve sul proprio cellulare informazioni sullo stato dell’arte e sulla risoluzione dell’intervento. La trasformazione digitale ha cambiato e continua a cambiare il modo di erogare i sevizi al cliente e di gestire le attività in ambito operations. «Mettere insieme dati provenienti da fonti differenti e metterli a disposizione del cittadino/cliente in modo semplice e immediato è un fattore esponenziale di crescita e dall’impatto fortemente positivo» – afferma Barra Caracciolo. Altro tema è il ruolo della PA. «I vantaggi per il cittadino passano anche dalla capacità di integrare efficacemente i servizi digitali con i dati a disposizione della PA. Su questo c’è ancora tanto da fare, ma un significativo progresso è stato già raggiunto con le iniziative strategiche, promosse dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, per ridurre il divario digitale e promuovere la conoscenza delle tecnologie del futuro, supportando la crescita delle comunità e per il loro tramite lo sviluppo del Paese» – aggiunge Barra Caracciolo. «Il mondo è cambiato ma le organizzazioni devono ancora trovare nuovi modelli in grado di “scaricare a terra” tutta l’innovazione offerta dalla digitalizzazione. L’IT è sempre più un abilitatore al centro del business e deve continuare a svolgere l’importante ruolo di propulsore del cambiamento».

Marco Barra Caracciolo chairman e CEO di Bludigit – Gruppo Italgas

PIÙ RISCHI PER LA SICUREZZA

«La sicurezza non è un problema tecnologico» – sostiene Dario Pagani, head Digital & IT di Eni. «Questo non significa che non esistano problematiche tecnologiche, ma che possono essere individuate e corrette. Il problema invece è soprattutto culturale, anche all’interno delle aziende» – afferma Pagani. «Per esempio, si pensi allo smart working, un nuovo modello di lavoro che in molti non sono abituati a gestire e che perciò giudicano negativamente in termini di sicurezza. Queste difficoltà naturalmente ci possono essere, ma si può intervenire per far apprezzare ciò che c’è di buono in questo nuovo modello di lavoro». Il fattore umano è essenziale: «Pensare prima di cliccare» – esemplifica Pagani sia in azienda sia nella vita privata. I dati sono importantissimi e si stanno sempre più spostando verso la frontiera delle organizzazioni estese. Tuttavia, ci si scontra sempre sull’ultimo miglio e su offerte limitate e circoscritte. «Possibile che i data center in Italia possano esistere solo in alcune zone? – provoca Pagani per sottolineare come l’offerta debba crescere in modo differente da quanto accaduto sinora. «Il problema della sicurezza dei dati portati nei grandi data center condivisi è solo un problema di mindset, quello che occorre irrobustire è la progettazione: fare security by design realmente da parte di tutti, sviluppatori interni ed esterni». Per questo, è cresciuta l’importanza di avere una certificazione – reale e non dichiarata – del prodotto acquistato sia hardware che software.

PA E AZIENDE PRIVATE

Segnale di ottimismo da parte di Massimo Bollati, direttore della Trasformazione Digitale dell’Agenzia del Demanio. «Il mio ingresso nella Pubblica Amministrazione mi ha permesso di apprezzare la competenza e concretezza di molti professionisti del digitale che lavorano per lo Stato. C’è molta voglia di fare anche se talvolta tali competenze non sono distribuite in modo omogeneo. Ad esempio, c’è una sensibile differenza tra amministrazioni centrali e territoriali». L’agenzia del Demanio gestisce quasi 44mila edifici pubblici per un valore di circa 61 miliardi di euro. I dati raccolti sono sempre stati quelli classici in termini di anagrafiche, consumi, occupazioni e così via. Ma il Demanio ora ha intrapreso un nuovo percorso che aggiunge a questi dati anche tutto ciò che è orientato alla valorizzazione dell’immobile al fine di restituire alle pubbliche amministrazioni e al cittadino qualcosa che sia più “smart”. «Lo smart building – che noi decliniamo come Sustainable Building – è un tema centrale per l’Agenzia del Demanio che può essere considerata una data-driven company» – continua Bollati. «Raccogliamo dati, li analizziamo, li strutturiamo, creiamo scenari di utilizzo degli immobili, di riallocazione, di valorizzazione, e tramite l’analisi di questi dati proponiamo alternative concrete ai vari interlocutori, utilizzatori degli immobili e Pubblica Amministrazione». In questa nuova visione, l’Agenzia del Demanio ha deciso di dotarsi non di una nuova direzione IT ma di una Direzione della trasformazione digitale, dove il termine trasformazione – secondo Bollati – andrebbe sostituito con accelerazione.

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Dario Pagani head Digital & IT di Eni

«La tecnologia c’è. Le condizioni a contorno esistono. Bisogna solo far accadere le cose nel modo migliore e più efficace e veloce possibile». Per farlo, servono le due “C”, sostiene Bollati: «Continuità e competenze». Continuità: «Alcuni progetti non possono vivere di tre anni in tre anni». Competenze: «Sono diffuse a macchia di leopardo e scontano due effetti. Il primo è l’aspetto generazionale. Il secondo è la necessità di una certificazione delle competenze che sia condiviso e nazionale, anche per ridare dignità alle professionalità dell’informatica e del digitale». Su questo ultimo aspetto, alcune associazioni di CIO (come CIO AICA Forum di cui Bollati è vicepresidente), insieme a Federmanager si stanno facendo promotrici di iniziative importanti per la formazione e certificazione delle competenze dei manager IT. Senza questi due fattori, si rischia che il tema della trasformazione digitale nella PA ma non solo, risulti alla fine solo un bello slogan per accedere ai fondi del PNRR. «Per portare avanti la strategia di rilancio del Paese – continua Bollati – occorre avere profonda coerenza. La trasformazione digitale richiede impegno e continuità da parte delle istituzioni». People, planet, prosperity, peace e partnership sono i cinque principi fondamentali dell’Agenda 2030. «Innovazione, digitale e sostenibilità in tutte le sue declinazioni sono le leve per realizzarla. A livello di sostenibilità, il Demanio, tramite il digitale, deve diventare vero valorizzatore del modello sostenibile introducendo indicatori ad hoc. All’interno dei bandi di gara vanno inseriti questi indicatori sia in modalità ex-ante che ex-post per la valutazione dell’effettiva sostenibilità e valore di un progetto immobiliare».

Ma le aziende private si trovano in una situazione diversa rispetto dalla Pubblica Amministrazione? E soprattutto, credono che la trasformazione digitale potrà avvicinare il cliente finale al produttore? Gianluca Ceruti, CIO di Bolton Group, azienda che produce e vende prodotti di largo consumo a livello internazionale, ci dice che per la sua azienda – «il B2C è ancora un fenomeno per la maggior parte legato a pochissimi articoli anche in considerazione del fatto che i prodotti sono venduti al cliente finale tramite gli scaffali di distributori grandi e piccoli che non si vogliono penalizzare». Insomma, il B2B svolge ancora un ruolo preminente in questo mercato sia per il modello distributivo in essere sia per la complessità di approntare una supply chain adeguata al B2C, con riferimento a tutti i sistemi coinvolti. «Una cosa è portare un pallet di articoli a un magazzino di un operatore della grande distribuzione con un ordine solo, un’altra è distribuire 100 prodotti con ordini diversi a casa di 100 clienti». Inoltre Ceruti spiega che – per una azienda “familiare” come Bolton Group – «essere competitivi in alcuni settori, anche molto “frequentati” da grandi multinazionali, significa essere estremamente efficienti in tutto quello che sta dietro il front-end, a partire dal supporto all’automazione di processo fino alla localizzazione degli impianti produttivi vicino il più possibile al mercato di collocazione». Quindi, dotarsi di strutture molto flessibili, per adattare i prodotti alle esigenze del consumatore con una distribuzione molto capillare, può risultare un aspetto vincente di una trasformazione digitale non tanto sbandierata ma di fatto applicata ogni giorno. «Occorre una selezione degli investimenti. Bisogna decidere dove posizionare le risorse per mantenere la redditività aziendale» – aggiunge Ceruti.

La necessità di dover dare risposte al consumatore, per esempio sulla sostenibilità della produzione del prodotto e la certificazione della filiera produttiva, spinge l’azienda manifatturiera a sviluppare e mettere in atto una trasformazione digitale in grado di soddisfare le esigenze del cliente finale, nonché esigenze interne di controllo qualità di quanto prodotto. «In Bolton Group, questa attenzione è presente da molto prima che venisse alla ribalta il concetto di trasformazione digitale e sostenibilità» – conclude Ceruti. La trasformazione digitale nel privato può essere vista come una modalità per essere sempre vicini alle esigenze del cliente e per rendere efficiente ed efficace la gestione della filiera dalla produzione alla distribuzione, con coniugazioni diverse e verticali legate allo specifico business.

Massimo Bollati direttore per la Trasformazione Digitale – Agenzia del Demanio

NEL CUORE DELLA TRASFORMAZIONE

«Esiste una accelerazione della trasformazione digitale dovuta all’incremento della complessità generale e quindi occorre trovare il modo per facilitare aziende e Pubblica Amministrazione a trarre beneficio da questa spinta repentina, senza rimanerne schiacciati» – afferma Michele Armenise, managing director di Axians Italia. Per attuare realmente e in modo efficace la trasformazione occorre che tutti gli attori coinvolti siano consapevoli del percorso modificativo che dovranno compiere, e al tempo stesso essere convinti che quel percorso potrà portare benefici e non problemi. «Questo implica che non esiste trasformazione digitale senza coinvolgimento attivo delle persone» – spiega Francesco Clabot, partner & CTO di WEGG. Ogni trasformazione, e quella digitale non si sottrae a questa regola, comporta un cambio organizzativo. Purtroppo, talvolta eventi esterni accelerano una trasformazione non ancora disegnata e metabolizzata dalle organizzazioni. Basti pensare alla pandemia e alla remotizzazione delle modalità di lavoro, formazione e comunicazione. «Oggi, stiamo lavorando in modalità “reverse engineering” cercando di mettere al loro posto tasselli organizzativi, che il digitale ha permesso in pochissimo tempo di attuare in modo differente dal passato» – riprende Armenise. «Il payoff di Axians recita “the best of ICT with the human touch. Questo significa che è necessario recuperare la dimensione umana all’interno del contesto organizzativo».

Una ibridizzazione che permea il business, le organizzazioni, il lavoro, i processi e che trae origine dalla contaminazione stessa dei modelli tecnologici: si mettono i dati in cloud ma anche su server locali vicini a dove vengono prodotti, per poi essere elaborati da una forza computazionale distribuita a livello geografico. «Quello che si deve governare è la complessità, garantendo sicurezza e corretta gestione del rischio» – afferma Armenise. «La sicurezza finora è stata trattata in una logica assicurativa, con un approccio reattivo e non di prevention. Agire sulla cybersecurity vuole dire attivarsi a livello tecnologico, di processo ma anche a livello culturale aumentando il grado di consapevolezza ed attenzione al tema, in una logica preventiva. La sicurezza al cento per cento non esiste. Ma esiste invece la possibilità di disporre di dati che possono indicare i passi ottimali da seguire per rispondere a un attacco e anticipare una situazione di rischio».

IL FATTORE UMANO

La trasformazione digitale si fa con la testa delle persone e con gli strumenti della tecnologia. Il fattore umano è essenziale. Il coinvolgimento degli addetti alle HR è rilevante almeno quanto la tecnologia adottata per la trasformazione stessa. Bisogna ricordare che non è la tecnologia a indurre il processo organizzativo. Ma è l’organizzazione del lavoro che deve guidare la scelta della tecnologia più adatta a supportarla, tenendo sempre presente l’obiettivo globale, per non incorrere nel rischio (sempre presente) di costruire applicativi troppo verticali (e quindi difficili e costosi da manutenere) guidati solo da una visione localizzata che non permette di aprire la vista “al cosa fanno gli altri e al come hanno risolto gli stessi problemi”. L’attenzione si sposta quindi dalla tecnologia alle persone. Ma come rendere le persone capaci di essere forza motrice e cinghia di trasmissione della trasformazione digitale? «Il vero problema è trovare il modo di sfruttare le tecnologie, anche quelle di rete, per ottenere benefici tangibili per le persone» – spiega Francesco Clabot di WEGG. «Il ruolo del digital transformation manager è essenziale ma molto spesso non compreso. La trasformazione digitale deve essere guidata dall’attenzione al cliente/utente e per questo bisogna farsi le domande giuste. Fare trasformazione digitale non significa adottare una tecnologia e poi dare la colpa al software in caso di insuccesso, senza tenere conto dei processi. Trasformare significa trovare soluzioni nuove e ridisegnare la logica di processo. Non bisogna confondere IT transformation e digital transformation. Pensiamo al settore bancario: lo sportello fisico è diventato un’applicazione sullo smartphone. Mettere al centro l’utente è essenziale per capire la trasformazione digitale».

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Gianluca Ceruti Group ICT director di Bolton Group

GUARDARE LONTANO

Ingredienti ormai classici della trasformazione digitale sono il cloud e la connettività. Il cloud non è scegliere se mettere i tuoi sistemi fuori dall’azienda ma portare i tuoi applicativi a funzionare in ottica pay-per-use. «Il cloud è soprattutto un cambio di mindset» – sostiene Marco Barra Caracciolo di Bludigit. «Qualcuno prova ancora a spiegare il cloud con il paradigma “sposta i tuoi sistemi sul cloud e risparmi”. Questo approccio può essere vincente per convincere un CEO non esperto, ma non è la verità e prima o poi i nodi vengono al pettine. Per risparmiare – o meglio ottimizzare con capacità di scalare – occorre ripensare la maggior parte degli applicativi in una logica diversa. Per andare sul cloud con successo occorre investire in re-ingegnerizzazione di software e di processi». Parliamo chiaro dice Barra Caracciolo: «Gli OpEx sul cloud crescono. La vera sfida è farli crescere linearmente, il più possibile vicini al pareggio, e non esponenzialmente come logica conseguenza della crescita inarrestabile di dati, capacità computazionale e connettività». La trasformazione influenza sicuramente il modo di concepire la cybersecurity, il disegno dei processi e lo sviluppo del software in modo Agile. Anche il tipo di adoption da parte dei C-level può essere di ostacolo o di sostegno alla trasformazione digitale. I C-level devono essere convinti del passo da compiere perché sono loro a dover guidare il cambiamento, non solo digitale ma soprattutto organizzativo. Occorre quindi avere capacità di visione in grado di mettere assieme i passi necessari per raggiungere l’obiettivo con un approccio trasversale. Basti pensare ai contratti classici dei system integrator che sviluppano software che quasi mai comprendono, per esempio, indicatori della capacità di utilizzare il prodotto sviluppato sul cloud in modo profittevole. Forse proprio per questo motivo, stanno guadagnando terreno applicativi che sono in grado di definire il grado di portabilità sul cloud, suggerendo modifiche, e anche il livello per così dire “green”. Tali strumenti in futuro potrebbero assumere una loro connotazione fondamentale nella verifica e certificazione del software sviluppato da terzi, oltre che nell’analisi delle attività da attuare sul proprio parco software per un journey-to-cloud più efficace.

Michele Armenise managing director di Axians Italia

PENSARE IN MODO DIVERSO

«La user experience diventa essenziale al pari del cambio di mindset» – ci ricorda Ceruti di Bolton Group. Il primo alleato dell’IT sono le risorse umane. Altro aspetto essenziale è comprendere le esigenze del cliente finale o dell’utente. Più facile a dirsi che a farsi. «Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: un cavallo più veloce» – Clabot di WEGG cita la celebre frase di Henry Ford. «Questo ci fa comprendere come talvolta anche i clienti, i destinatari della trasformazione, non siano in grado di comprendere appieno le potenzialità retrostanti e, soprattutto, non riescano a formalizzare esigenze e requisiti senza basarsi sull’esperienza precedente». Per questo motivo, il ruolo del designer è fondamentale perché ci aiuta a formalizzare le esigenze tramite una metodologia che ci porta a “pensare” in modo diverso dal solito. «Trasformazione digitale – riprende Barra Caracciolo di Bludigit – vuole dire ripensare i processi applicando metodi di lavoro alternativi, adottando nuove architetture infrastrutturali e/o applicative, e utilizzando strumenti innovativi, adeguati al cambio di paradigma che si vuole implementare».

Alla fine comunque – sottolinea Pagani di Eni – «il ruolo dell’IT è fondamentale perché avendo una visione completa e trasversale dei processi aziendali è il candidato ideale per avere quella visione “bifocale” necessaria a proporre innovazione di processo e applicativa». Il cliente o l’utente finale sono più avveduti di quanto non si creda. «Non è vero che il cliente non conosca ciò che vuole» – ribatte Bollati dell’Agenzia del Demanio. «In molti casi, una possibile lacuna dell’IT è quella di proporgli soluzioni di digitalizzazione non adeguate». Altro aspetto fondamentale – sottolinea Pagani – è la capacità di imparare che richiede anche una buona dose di umiltà: «Pensiamo ai C-level che devono prendere serena coscienza di avere alcuni gap formativi e si devono quindi porre nella disposizione positiva di chi vuole comprendere per migliorare».

Francesco Clabot partner & CTO di WEGG

SOSTENIBILITÀ E TRASFORMAZIONE

Concludendo occorre chiedersi quanto è cambiata la società e quanto siamo coscienti dei temi legati alla sostenibilità. La trasformazione digitale dovrebbe essere pensata anche in relazione alla società che vogliamo costruire. Non ha senso parlare di transizione energetica se non comprendiamo che la trasformazione digitale ne è l’elemento abilitatore. «Stiamo spiegando ai nostri ragazzi – si chiede Pagani – che dettare un messaggio vocale al telefonino ha un impatto sull’ambiente molto più elevato di scendere per strada e parlarsi»? La tecnologia modella il nostro modo di vivere e la società. La trasformazione digitale disegna il futuro di un nuovo continente digitale di cui imprese e persone fanno parte ma ancora senza cittadinanza. La rotta che tracceremo farà la differenza.

Foto di Gabriele Sandrini


Point of view

Intervista a Michele Armenise, managing director di Axians Italia: Integrazione a 360 gradi

Intervista a Marco Casaletta, sales engineer & telco operators manager di Data4: Data center affidabili e green

Intervista a Francesco Clabot, partner & CTO di WEGG: Le persone al centro del cambiamento